Nonostante la morte sia stata causata dalla somministrazione del farmaco (effettuata in concreto dall’anestesista), la Cassazione ha condannato entrambi i medici facenti parte dell’equipe.
La Cassazione ha riconosciuto una responsabilità in solido tra i due sanitari: il chirurgo, che ha effettuato l’operazione e l’anestesista, che ha iniettato il farmaco mortale, in quanto è stata riconosciuta da parte della Cassazione una posizione di garanzia in capo al chirurgo che deve concordare preventivamente con il collega anestesista le sostanze da iniettare, rilevando eventuali allergie del malato.
È scattata la condanna in solido per omicidio colposo sia per il chirurgo che per l’anestesista che ha iniettato il farmaco per sedare.
La signora è morta a seguito di un intervento di chirurgia plastica alle palpebre cd. di blefaroplastica.
La donna si è sottoposta all’intervento, rivelatosi letale, in un centro medico privato, sprovvisto di una sala rianimazione.
La signora soffriva d’asma e di varie allergie. L’anestesia locale non ha fatto effetto ed il medico anestesista per far cessare il dolore locale ha iniettato l’ulteriore dose di sedativo letale.
La responsabilità in solido è stata riconosciuta ed ha portato alla condanna anche del chirurgo che, secondo gli Ermellini, doveva vigilare in quanto titolare di una posizione di garanzia all’interno del lavoro d’equipe. Egli avrebbe dovuto – a detta dei giudici di merito- interrompere l’operazione essendo evidente l’agitazione della paziente che reagiva alle sostanze oltre che controllare in maniera attenta i parametri vitali durante l’intervento (Corte di Cassazione sentenza 52499/ 2018, VI sezione penale).
Peraltro ai due medici è stata contestata in giudizio la “lacunosità nella ricostruzione del fatto, per difetto di chiarezza in ordine alla natura commissiva ed omissiva delle rispettive responsabilità oltre che la mancata considerazione delle modalità di gestione dell’emergenza causata dalla sedazione eccessiva, dall’assenza di verifiche controfattuali in ordine alla possibilità di impedire la morte della paziente nel caso di disponibilità degli strumenti necessari a contenere i rischi dell’anestesia generale come il tubo endotracheale che nei fatti mancava nel centro medico privato”.
Peraltro ai due medici è stato contestato altresì che i farmaci Midazolam e Propofol non potevano essere utilizzati in un contesto di clinica privata perché di uso strettamente ospedaliero. Oltre al fatto che vi era stato un dosaggio sconsiderato e che l’equipe chirurgica a fronte del dolore persistente della paziente e dell’insufficienza dell’anestesia locale avrebbe dovuto senza dubbio alcuno sospendere l’intervento e rinviarlo ad altra data, concordando i dottori una sedazione adeguata.
I giudici (avvalendosi di periti) hanno rilevato che una tempestiva tracheotomia avrebbe salvato la vita della donna evitando l’interruzione della funzione respiratoria e il conseguente arresto cardiaco.
Posizione aggravata dal fatto che i due chirurghi non si erano preoccupati neppure di verificare se fosse stata fatta la visita preliminare necessaria ed acquisito il consenso della paziente.
Secondo consolidata giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità medica l’obbligo di diligenza che grava sui componenti dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni affidate al singolo medico ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui (che siano evidenti) e non una vigilanza settoriale in quanto tali, rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenza del professionista medio.
È stato altresì precisato in tema di colpa medica che deve escludersi un esonero di responsabilità del chirurgo che si sia fidato acriticamente della scelta del collega più anziano pur essendo in possesso delle condizioni tecniche per coglierne la erroneità ed avendo pertanto il dovere assoluto di valutarla e se del caso contrastarla ex multis Cassazione 7667/2017.
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