La Morte è sempre stata guardata dall’uomo come un destino crudele dei viventi; la sua inesorabilità fa vacillare e come scriveva F. D. Guerrazzi, “o la Vita è un male, e perchè ci fu data?, o la Vita è un bene, e perchè ci vien tolta?” Fiumi di inchiostro si sono spesi, tuttavia il tema dell’assistenza nella fase terminale di chi soffre, è da sempre un tema dibattuto che investe la sfera giuridica oltre a quella etica, perchè deve necessariamente essere posto in correlazione con il diritto del soggetto di autodeterminarsi, che sempre più si fa strada negli ordinamenti europei.
Il dibattito ha investito tanto la terminologia “politicamente corretta” che l’assetto normativo del nostro ordinamento: Uccisione pietosa, eutanasia, suicidio assistito hanno coinvolto intere brache di medicina, morale, diritto ed eugenica, dato origine a conflitti intestini, e non, oggi tutt’altro che sopiti.
I casi di cronaca Englaro, Welbi, Dj Fabo hanno sottolineato con maggiore impulso la necessità di un intervento giuridico in quanto c’è stato chi ha preferito accelerare l’exitus.
Le cure palliative, nate circa 30 anni fa in Inghilterra, svengono somministrate ai pazienti affetti da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici e di cui la morte è diretta conseguenza. Nelle cure palliative il fine è il controllo del dolore.
Con la legge 219/2017 è stato disciplinato ciò che prima si ritrovava solo nella giurisprudenza, ossia la possibilità per il malato di rifiutare o sospendere qualsiasi terapia, ivi incluse quelle salvavita. Effetto diretto del rifiuto o della sospensione di terapie salvavita, è la morte. Questa, a seconda del trattamento rifiutato o sospeso, non sempre è rapida.
C’è stato chi, ha voluto accelerare il momento del trapasso con conseguenze legali per i parenti e/o il personale sanitario che lo ha aiutato. Rileva quindi la posizione presa dalla Consulta che è stata di totale rottura col passato.
La Corte Costituzionale chiamata a decidere sul famoso caso Dj Fabo ha dichiarato illegittimo l’articolo 580 del Codice penale nella parte in cui non si tiene conto della situazione di chi soffre in modo insostenibile.
Ricordiamo che l’art. 580 c.p. punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio con pene tra i 5 e i 12 anni di carcere ed è il capo di imputazione per il quale Marco Cappato, amico di Dj Fabo, è stato indagato dalla Procura di Milano.
La Consulta era stata chiamata a pronunciarsi sulla questione dalla Corte d’Assise di Milano nell’ambito, appunto, del processo contro Marco Cappato circa il suo coinvolgimento nel suicidio assistito di Dj Fabo.
La Corte ha ritenuto «non punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
In attesa di un indispensabile intervento del legislatore (il Parlamento ha avuto un anno di tempo per esprimersi ma non lo ha ancora fatto) la Corte ha subordinato la non punibilità «al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017 sulle DAT) ed alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente».
La Consulta sottolinea che «l’individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell’ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già aveva sottolineato nella sua precedente ordinanza 207 del 2018. Rispetto alle condotte già realizzate, il giudice valuterà la sussistenza di condizioni sostanzialmente equivalenti a quelle indicate».
Grazie alla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, in Italia è invece possibile richiedere il suicidio medicalmente assistito, ossia l’aiuto indiretto a morire da parte di un medico. le condizioni richieste sono quattro: la persona che ne fa richiesta deve essere pienamente capace di intendere e volere, deve avere una patologia irreversibile portatrice di gravi sofferenze fisiche o psichiche, e deve sopravvivere grazie a trattamenti di sostegno vitale.
L’impatto della sentenza è di certo evidente. Essa, infatti, apre la possibilità a chiunque di aiutare, nei limiti previsti, una persona che soffre a morire: stando alla pronuncia della Consulta, in tema di eutanasia oggi in Italia viene ad aprirsi qualche spiraglio nei granitici orientamenti legati alle posizioni più risalenti.
Ora la parola spetta al Parlamento dal quale ormai si aspetta da troppo tempo una legge che disciplini questa materia.
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