Il divieto di pantouflage o revolving doors (c.d. porte girevoli) intende prevenire uno scorretto esercizio dell’attività istituzionale da parte del dipendente pubblico, un conflitto di interessi ad effetti differiti, finalizzato a precostituirsi un favor nei confronti di colui che in futuro potrebbe conferirgli incarichi professionali, acclarando il diretto collegamento con il principio costituzionale di trasparenza, imparzialità, buon andamento e di quello che impone ai pubblici impiegati esclusività del servizio a favore dell’Amministrazione (art. 97 e 98 Cost.).
Introdotto con l a legge anti corruzione 2012 è punito con pregnanti sanzioni
La disciplina in materia di prevenzione della corruzione, ex legge n. 190/2012, ha inserito nell’art. 53, comma 16 ter del d.lgs. n. 165/2011 un vincolo per tutti i dipendenti (futuri ex dipendenti) che, negli ultimi tre anni di servizio (cd. periodo di raffreddamento), hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle P.A., di non poter svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri.
In conformità a quanto sopra, l’ANAC nel bando – tipo n. 2 del 2 settembre 2014 ha espressamente previsto l’introduzione, tra le condizioni ostative alla partecipazione, oggetto poi di specifica dichiarazione, tale divieto ope legis, costituendo un modello di riferimento sulla base del quale le stazioni appaltanti sono tenute a redigere la documentazione di gara per l’affidamento dei contratti pubblici, potendo discostarsene esclusivamente in presenza di una motivata deroga: tale clausola in tema di divieto di pantouflage risulta pienamente legittima, avente lo scopo di realizzare i fini di cui alla legge n. 190/2012, scongiurando quelle situazioni lavorative che sfruttando la posizione e il potere all’interno dell’amministrazione si predispongono le condizioni per ottenere un lavoro presso il soggetto privato in cui entra in contatto.
Questa pratica è stata limitata con la Legge 190/2012 che, con una modifica all’articolo 53 del D.lgs 165/2001 (inserendo il comma 16 ter) , dispone: “I dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed e’ fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti”.
Di recente tra l’altro è stata operata una estensione del divieto:
Divieto di «pantouflage» anche per i dipendenti pubblici non responsabili dei procedimenti
Il «pantouflage» ovvero il fatto che un dipendente pubblico passi a lavorare per un soggetto privato è visto con disfavore dal legislatore italiano. Più precisamente, la normativa italiana valuta negativamente tale “passaggio”, nel periodo immediatamente seguente a certe attività amministrative del lavoratore pubblico, ricollegando a esso varie sanzioni. Il divieto Infatti, il comma 16-ter dell’articolo 53 del Dlgs 165/2001 prescrive, in primo luogo, che i dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto della P.A.
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La delibera dell’Autorità Anticorruzione
Delibera n. 88 del 8 febbraio 2017
Oggetto: Ministero dello Sviluppo Economico – ambito oggettivo di applicazione art. 53, comma 16-ter d.lgs. 165/2001 – richiesta di parere.
AG 2/2017/AC
Art. 53, comma 16-ter d.lgs. 165/2001
Ai fini dell’applicazione dell’art. 53, comma 16-ter del d.lgs. 165/2001, nel novero dei poteri autoritativi e negoziali citati nella disposizione, possono ricomprendersi i provvedimenti volti a concedere in generale vantaggi o utilità al privato e quindi anche atti di autorizzazione, concessione, sovvenzione, sussidi, vantaggi economici di qualunque genere.
Il Consiglio
Visto il decreto legislativo n. 50/2016 e s.m.i.;
Visto l’appunto dell’Ufficio Precontenzioso e Affari Giuridici;
Considerato in fatto
Con nota prot. n. 35 del 21 dicembre 2016, acquisita al prot. n. 189020 in pari data, il Responsabile per la prevenzione della corruzione ed il Responsabile della trasparenza del Ministero dello Sviluppo Economico hanno sottoposto all’attenzione dell’Autorità una richiesta di parere in ordine all’ambito di applicazione dell’art. 53, comma 16-ter del d.lgs. 165/2001.
In particolare, gli istanti riferiscono di aver fornito alle strutture interne del predetto Ministero indicazioni operative in ordine all’applicazione della suindicata norma, come da nota circolare allegata all’istanza di parere.
In tale nota, oltre a confermare gli orientamenti dell’Autorità in materia, è stato precisato che nell’espressione “poteri autoritativi o negoziali”, contenuta nella disposizione, devono includersi – oltre ai contratti di forniture, servizi e lavori, con relativi atti prodromici – anche gli “atti di autorizzazione, concessione, sovvenzione, sussidio, vantaggio economico di qualunque genere”. Per “potere autoritativo” della PA è stato quindi inteso il potere che si estrinseca nell’adozione di provvedimenti amministrativi atti ad incidere unilateralmente, modificandole, sulle situazioni giuridiche soggettive dei destinatari. Pertanto, i dipendenti che esercitano poteri autoritativi e negoziali per conto dell’Amministrazione, cui fa riferimento l’art. 53, comma 16-ter, sono quelli che esercitano concretamente ed effettivamente i poteri sopra descritti.
Trattandosi di interpretazione ritenuta ampliativa della previsione normativa in parola, e stante l’impatto della stessa sui rapporti, anche di natura patrimoniale, tra PA e terzi, il Responsabile per la prevenzione della corruzione ed il Responsabile della trasparenza del predetto Ministero hanno quindi richiesto all’Autorità di esprimere avviso sulla prospettata interpretazione della norma.
Ritenuto in diritto
Al fine di rendere il richiesto parere, si richiama preliminarmente il disposto dell’art. 53, co. 16-ter del d.lgs. 165/2001, a tenore del quale «i dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti». Il successivo comma 43 dello stesso articolo 1, specifica al riguardo che «Le disposizioni di cui all’, introdotto dal comma 42, lettera l), non si applicano ai contratti già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge».
Si richiama, altresì, l’art. 21 del d.lgs. 39/2013 a tenore del quale «Ai soli fini dell’applicazione dei divieti di cui al comma 16-ter dell’articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, sono considerati dipendenti delle pubbliche amministrazioni anche i soggetti titolari di uno degli incarichi di cui al presente decreto, ivi compresi i soggetti esterni con i quali l’amministrazione, l’ente pubblico o l’ente di diritto privato in controllo pubblico stabilisce un rapporto di lavoro, subordinato o autonomo. Tali divieti si applicano a far data dalla cessazione dell’incarico».
Ai sensi delle disposizioni sopra richiamate, dunque, i dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri.
In relazione alla disciplina recata dall’art. 53, comma 16-ter del d.lgs. 165/2001, l’Autorità è intervenuta con diverse pronunce (deliberazione n. 292 del 09 marzo 2016, AG2 del 4 febbraio 2015, AG8 del 18 febbraio 2015, AG74 del 21 ottobre 2015, nonché gli orientamenti da n. 1) a n. 4) e 24) del 2015), al fine di fornire agli operatori del settore, indicazioni in ordine al campo di applicazione della stessa.
In particolare, l’Autorità ha chiarito che la disposizione de qua è stata introdotta nel d.lgs. 165/2001 dall’art. 1, comma 42, della l. 190/2012, con finalità di contenimento del rischio di situazioni di corruzione connesse all’impiego del dipendente successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. Il rischio valutato dalla norma è che durante il periodo di servizio il dipendente possa artatamente precostituirsi delle situazioni lavorative vantaggiose e così sfruttare a proprio fine la sua posizione e il suo potere all’interno dell’amministrazione per ottenere un lavoro per lui attraente presso l’impresa o il soggetto privato con cui entra in contatto. La norma prevede quindi una limitazione della libertà negoziale del dipendente per un determinato periodo successivo alla cessazione del rapporto per eliminare la “convenienza” di accordi fraudolenti.
I “dipendenti” interessati dalla norma sono coloro che per il ruolo e la posizione ricoperti nell’amministrazione hanno avuto il potere di incidere in maniera determinante sulla decisione oggetto dell’atto e, quindi, coloro che hanno esercitato la potestà o il potere negoziale con riguardo allo specifico procedimento o procedura (dirigenti, funzionari titolari di funzioni dirigenziali, responsabile del procedimento nel caso previsto dall’art. 125, commi 8 e 11, del d.lgs. n. 163 del 2006). I predetti soggetti nel triennio successivo alla cessazione del rapporto con l’amministrazione, qualunque sia la causa di cessazione (e quindi anche in caso di collocamento in quiescenza per raggiungimento dei requisiti di accesso alla pensione), non possono avere alcun rapporto di lavoro autonomo o subordinato con i soggetti privati che sono stati destinatari di provvedimenti, contratti o accordi. La disposizione contempla, al riguardo, in caso di violazione del divieto ivi sancito, le specifiche sanzioni della nullità del contratto e del divieto per i soggetti privati che l’hanno concluso o conferito, di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni, con contestuale obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti ed accertati ad essi riferiti.
Nelle suindicate pronunce, inoltre, l’Autorità ha ulteriormente chiarito che:
Con riferimento ai dipendenti con poteri autoritativi e negoziali, cui fa riferimento la norma, è stato affermato che tale definizione è riferita sia a coloro che sono titolari del potere (come nel caso dei dirigenti degli uffici competenti all’emanazione dei provvedimenti amministrativi per conto dell’amministrazione e perfezionano negozi giuridici attraverso la stipula di contratti in rappresentanza giuridica ed economica dell’ente), sia ai dipendenti che pur non essendo titolari di tali poteri, collaborano al loro esercizio svolgendo istruttorie (pareri, certificazioni, perizie) che incidono in maniera determinante sul contenuto del provvedimento finale, ancorché redatto e sottoscritto dal funzionario competente.
E’ stata altresì evidenziata la necessità di dare un’interpretazione ampia della definizione dei soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri (autoritativi e negoziali), presso i quali i dipendenti, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, non possono svolgere attività lavorativa o professionale. A tal riguardo è stato chiarito che occorre ricomprendere in tale novero anche i soggetti formalmente privati ma partecipati o in controllo pubblico, nonché i soggetti che potenzialmente avrebbero potuto essere destinatari dei predetti poteri e che avrebbero realizzato il proprio interesse nell’omesso esercizio degli stessi.
Sulla base della ratio delle disposizioni dell’art. 53, comma 16-ter del d.lgs. 165/2001, le stesse devono trovare applicazione anche in relazione al personale – titolare dei poteri sopra indicati – che nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro con la PA, si costituisca nuovo operatore economico, rivesta in tale compagine il ruolo di presidente del consiglio di amministrazione e in tali qualità partecipi alle gare indette dall’amministrazione presso la quale abbia svolto attività lavorativa.
In relazione al limite temporale fissato per il divieto contemplato nella norma de qua, è stato osservato che esso concerne solo i poteri autoritativi e negoziali esercitati nei tre anni precedenti alla cessazione del servizio, ed opera solo nei tre anni successivi a detta cessazione. Tale previsione si basa su due ordini di ragioni: da una parte, prevedere una soglia temporale che consenta di contemperare le esigenze di imparzialità del servizio con l’interesse dei soggetti di intrattenere rapporti di impiego e professionali, tenuto conto che il divieto, peraltro, opera una volta che il rapporto di servizio è venuto meno; dall’altra parte, prevedere una soglia temporale adeguata a ritenere non più idonea l’eventuale posizione di interesse creatasi nel periodo di svolgimento delle funzioni pubbliche a recare pregiudizio all’imparzialità della PA.
Infine, in conformità a quanto previsto nel bando-tipo n. 2, del 2 settembre 2014 dell’Autorità, è stato chiarito che le stazioni appaltanti devono prevedere nella lex specialis di gara, tra le condizioni ostative alla partecipazione, oggetto di specifica dichiarazione da parte dei concorrenti, il divieto di cui all’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001.
Dalle considerazioni che precedono emerge, dunque, che l’Autorità propende per un’interpretazione ampia della norma, che sia coerente con la ratio della stessa, volta – come illustrato – ad evitare che i dipendenti della PA orientino le proprie scelte non in maniera imparziale ma al fine di precostituirsi, rispetto ai privati su cui tali scelte sono destinate ad incidere, posizioni di favore da sfruttare professionalmente dopo la cessazione dell’impiego pubblico.
E l’Autorità è intervenuta anche con riferimento all’espressione “poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni” contenuta nell’art. 53, co. 16-ter, affermando che “…il potere autoritativo della PA si estrinseca nell’adozione di provvedimenti amministrativi atti ad incidere unilateralmente modificandole, sulle situazioni giuridiche soggettive dei destinatari. In altre parole la PA agente può introdurre nella sfera giuridica altrui un regolamento di interessi, senza che sia necessario il consenso o la collaborazione del soggetto titolare della stessa (laddove manchi l’autoritarietà non si è in presenza di un provvedimento amministrativo ma di soluzioni pattizie, come accordi o convenzioni, in cui l’assetto degli interessi è regolato in termini consensuali tra le parti). Il potere autoritativo è comunque subordinato al rispetto del principio di legalità. Nella generalità dei casi la PA esercita poteri autoritativi, tuttavia l’art. 1, comma 1-bis l. 241/1990 – a tenore del quale «la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente»- consolida la valorizzazione dell’attività di diritto privato della stessa (pur legata al perseguimento del pubblico interesse), riconoscendo in capo alla PA una piena capacità contrattuale, comprensiva anche del potere di ricorrere a contratti che non appartengono ai tipi disciplinati dalla legge. Alla PA è quindi riconosciuta la facoltà di curare l’interesse pubblico instaurando rapporti di carattere privatistico con i soggetti interessati, su un piano di parità, in alternativa all’utilizzo dello strumento procedimentale e del provvedimento unilaterale, mediante atti a contenuto negoziale” (parere sulla normativa AG/2/2015/AC).
Sulla base di tale avviso può quindi affermarsi che rientrano nell’espressione “poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni”, sia i provvedimenti afferenti specificamente alla conclusione di contratti per l’acquisizione di beni e servizi per la PA, sia i provvedimenti adottati unilateralmente dalla stessa, quale estrinsecazione del potere autoritativo, che incidono modificandole sulle situazioni giuridiche soggettive dei destinatari. Si ritiene pertanto che con tale espressione il legislatore abbia voluto ricomprendere tutte le situazioni in cui il dipendente ha avuto il potere di incidere in maniera determinante sulla decisione oggetto dell’atto, esercitando il potere autoritativo/negoziale con riguardo allo specifico procedimento o procedura.
Tenuto conto della finalità della norma – volta ad evitare che il dipendente possa sfruttare a proprio fine la sua posizione e il suo potere all’interno dell’amministrazione per ottenere un lavoro presso l’impresa o il soggetto privato con cui entra in contatto – può affermarsi che nel novero dei poteri autoritativi e negoziali citati nella disposizione de qua, possa ricomprendersi anche l’adozione di provvedimenti che producono effetti favorevoli per il destinatario e quindi anche atti di autorizzazione, concessione, sovvenzione, sussidi, vantaggi economici di qualunque genere.
In tal senso, l’interpretazione proposta dal Ministero, volta a ritenere applicabile l’art. 53, co.16-ter del d.lgs. 165/2001 ai dipendenti che negli ultimi tre anni di servizi hanno esercitato poteri autoritativi e negoziali, anche consistenti nell’adozione degli atti sopra indicati, appare coerente con le finalità perseguite dal legislatore con la norma in esame.
Finalità che, come sopra evidenziato, impongono una lettura della disposizione stessa conforme all’intenzione del legislatore di contenere, attraverso l’istituto del pantouflage, il rischio di situazioni di corruzione connesse all’impiego del dipendente successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.
In base a quanto sopra considerato,
Il Consiglio
approva la presente deliberazione.
Raffaele Cantone
Depositato presso la Segreteria del Consiglio in data 16 febbraio 2017
Il Segretario, Maria Esposito
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