La recente pronunzia della Corte di Cassazione ha statuito che non si tratta di effettivi maltrattamenti ma di “danni da straining” per le lesioni subite dal lavoratore che è stato confinato nello sgabuzzino.
Non si configura dunque il reato di “maltrattamenti in famiglia” a carico dei dirigenti che hanno immobilizzato il lavoratore.
Secondo i giudici dunque la risarcibilità trova fonte nella definizione di “straining”: ovvero nella marginalizzazione ed offensiva dequalificazione sul lavoro che tuttavia potranno essere configurate come reato di lesioni personali volontarie e laddove l’esclusione del delitto di cui all’articolo 572 non assorba anche altri profili eventualmente sanzionabili sul piano penale.
Secondo la sentenza 28603 del 2013 della sesta sezione penale della Cassazione pur essendo tale situazione di fatto astrattamente riconducibile nella nozione di mobbing in una sua forma di manifestazione attenuata, che dai giudici di merito viene denominata come straining, le pratiche persecutore realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente nell’ambito del rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente poiché tale relazione assume natura “parafamiliare” in quanto caratterizzata da relazioni intense ed abituali e dal formarsi di una vera e propria consuetudine di vita tra i soggetti, nonché caratterizzata dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia-soggezione) ed altresì dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto (il lavoratore) in quello che ricopre la posizione di supremazia (il datore) e come tale destinatario di obblighi di assistenza verso il primo (Cassazione 26500 94 del 2009 e 658 del 2010).
Puntualizza la Corte che il fatto di aver escluso il reato di maltrattamenti NON determini la giuridica irrilevanza.
Infatti qualora non fosse configurabile tale delitto poiché la fattispecie non è riconducibile al delitto di cui all’articolo 572 del codice penale, si integrerebbero i reati di percosse, minacce unitamente ad ingiurie e privazioni imposte alla vittima, atti di scherno, disprezzo ed umiliazione che in quanto tali sarebbero idonei a cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima. La Cassazione in molti casi ha infatti riconosciuto che le condotte poste in essere dal superiore possono configurare altre fattispecie di rilievo penale, pur meno gravi, concorrenti con il delitto previsto dall’articolo 572 del Codice penale. In particolare, la Cassazione ha chiarito che – dato lo straining – sarebbe stato necessario verificare se fosse stato commesso il reato di lesioni personali volontarie, delitto autonomo, perché previsto dall’articolo 582 del Codice penale, rispetto a quello di maltrattamenti in famiglia.
Ne consegue che è riservato alla valutazione del giudice di merito accertare se i singoli episodi vessatori rimangano assorbiti nel reato di maltrattamenti ad esempio lesioni non volute oppure integrino ipotesi criminose autonomamente volute dall’agente e pertanto concorrenti con il delitto di cui all’articolo 572 c.p.
Che cos’è lo straining? Chi non lo riconosce lo scambia per Mobbing
Angherie, dispetti, vessazioni, emarginazioni, umiliazioni, maldicenze e ostracismi. Sono tutti comportamenti che, se tenuti dai colleghi, sul luogo di lavoro, integrano quello che, gli esperti del settore, chiamano “straining”: “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce azioni reiterate con effetto negativo in ambiente lavorativo “.
Una normativa inesistente
Il nostro sistema non prevede, al momento, norme efficaci per arginare definitivamente il fenomeno, come invece accade già in molti paesi d’Europa (forse più attenti alle esigenze dei lavoratori) tuttavia l’ordinamento ma offre spunti per l’assimilazione del fenomeno con quanto previsto dall’articolo 2087 del Codice Civile e dal Decreto Legislativo 81/08, che sanciscono la tutela dell’integrità fisica e morale del lavoratore. Proprio perché si realizza tramite una singola condotta vessatoria, la fattispecie dello straining è più semplice da provare rispetto al mobbing, ma per ricevere il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno morale, è necessario esibire prove evidenti dell’abuso subito, come testimonianze attendibili o documenti aziendali che attestino il trattamento ricevuto.
In assenza di una nozione giuridica di straining la categoria è mutuata dalla scienza medica ed è così sintetizzabile: mentre il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità, lo straining, in via parzialmente coincidente ma in parte diversa, è “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer). Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante”
Che differenza c’è con il mobbing e con il bossing?
Il mobbing (vessazione attuata da un subordinato aziendale) e il bossing (messo in atto da un vertice aziendale) si realizzano spesso con la complicità di altri attori (il più delle volte vili e consenzienti) con lo scopo di indurre la vittima a licenziarsi pur di alleviare le pene che subisce giornalmente. In entrambe i casi occorre però dimostrare in giudizio l’esistenza di “una molteplicità di comportamenti” attuati nel tempo. Nel caso dello straining, invece, è molto più semplice dimostrare il patema subito perché si tratta di una singola “azione stressante” capace però di creare enormi impatti emotivi e psicosomatici sull’individuo. La legge 81 del 2008 , seppur ancora inadeguata, ha aperto uno spiraglio di speranza prevedendo che le aziende che non hanno saputo monitorare su tali comportamenti devianti dei loro dirigenti e/o dipendenti, pagheranno l’adeguato risarcimento alla vittima. Si tratta di una forma di responsabilità aziendale che dovrebbe (sulla carta) arginare possibili abusi mediante singoli controlli periodici
Come far valere le proprie ragioni
I danni possono essere di varia tipologia e gravità: “Possono variare dalle conseguenze di natura psico-fisica, ad esempio una patologia insorta a causa della vessazione subita, a quelle di natura puramente morale, ma non è preclusa la possibilità di ottenere il ristoro del danno patrimoniale, sempre che sia dimostrata la riconducibilità causale all’evento lesivo occorso al dipendente”. Per far valere le proprie ragioni servono le prove, ovviamente. Ma quali sono le prove di cui ha bisogno il dipendente vittima di straining? Le diffide inviate all’amministrazione, con cui si sono segnalate le condotte improprie tenute dal datore o dai colleghi oppure situazioni idonee a rendere insicuro l’ambiente lavorativo; gli ordini di servizio incongrui ricevuti o le mail con carattere offensivo recapitate e qualsiasi altro riscontro documentale che possa descrivere la condotta recante molestie; eventuali testimonianze rese da altri colleghi o da soggetti terzi che dovessero aver assistito a situazioni del genere e siano in grado di riferirle ad un magistrato. Per quanto concerne la documentazione medica, infine, di assoluto rilievo sono le certificazioni sanitarie da cui evincere l’insorgere dei disturbi, oltre ai referti degli esami clinici effettuati, nonché la relativa perizia medica, redatta da uno specialista (psichiatra, psicologo od altro), con indicazione dell’incidenza della patologia sulla capacità psico-fisica del lavoratore (il cosiddetto “danno biologico”).
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