Dopo aver parlato di usura bancaria vediamo quando gli interessi alla banca NON sono dovuti perché troppo alti.
La banca spesso applica interessi diversi da quelli indicati nelle scritture contrattuali, adeguandosi agli usi correnti su piazza. Valuta con noi se il tuo caso è tra questi.
Di solito la prassi è quella secondo cui successivamente la banca invia una lettera, nella quale esprime l’intenzione di revocare la volontà manifestata in qualsiasi precedente scrittura. La circostanza, dunque, che la banca possa aver di fatto applicato interessi ad un tasso diverso da quello pattuito spesso risulta evidente, con la conseguenza che i tassi d’interesse in concreto applicati dalla banca siano da reputarsi nulli .
Se sono reputati nulli, gli interessi non sono più dovuti. Vale dunque la pena tentare laddove ci sono fondati sospetti che la banca non abbia agito secondo buona fede e correttezza.
Ciò in conformità all’orientamento delle Sezioni Unite, secondo cui la legittimità della capitalizzazione degli interessi a debito del correntista bancario va esclusa con conseguente nullità della clausola di capitalizzazione extralegale, sia essa trimestrale o annuale.
L’annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati dalla banca al correntista è da reputarsi nulla, laddove sussistano determinati requisiti. L’annotazione in conto di una siffatta posta comporta, infatti, un incremento del debito del correntista, o una riduzione del credito di cui egli ancora dispone.
Alla luce delle argomentazioni sopra esposte, e come confermato dai giudici di legittimità, sin dal momento dell’annotazione, avvedutosi dell’illegittimità dell’addebito in conto, il correntista potrà naturalmente agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui quell’addebito si basa e, di conseguenza, per ottenere una rettifica in suo favore delle risultanze del conto stesso. E potrà farlo, se al conto accede un’apertura di credito bancario, allo scopo di recuperare una maggiore disponibilità di credito entro i limiti del fido concessogli.
Come agevolmente si evince dal disposto degli articoli 1842 e 1843 c.c., l’apertura di credito si attua mediante la messa a disposizione, da parte della banca, di una somma di denaro che il cliente può utilizzare anche in più riprese e della quale, per l’intera durata del rapporto, può ripristinare in tutto o in parte la disponibilità eseguendo versamenti che gli consentiranno poi eventuali ulteriori prelevamenti entro il limite complessivo del credito accordatogli.
Se, pendente l’apertura di credito, il correntista non si sia avvalso della facoltà di effettuare versamenti, pare indiscutibile che non vi sia alcun pagamento da parte sua, prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato.
Tuttavia qui non viene richiesta la somma in concreto utilizzata, ma una somma capitalizzata in maniera esponenziale con un calcolo di interessi usurari, calcolati in misura extralegale e senza espresso consenso del correntista.
Un versamento eseguito dai cliente su un conto il cui passivo non abbia superato il limite dell’affidamento concesso dalla banca con l’apertura di credito non ha né lo scopo né l’effetto di soddisfare la pretesa della banca medesima di vedersi restituire le somme date a mutuo (credito che, in quel momento, non sarebbe scaduto né esigibile), bensì quello di riespandere la misura dell’affidamento utilizzabile nuovamente in futuro dal correntista.
Naturalmente, la circostanza che, in quel momento, il saldo passivo del conto sia influenzato da interessi illegittimamente fin lì computati si traduce in un maggior indebitamento secondo il principio di diritto enunciato dalla Cassazione:
“Se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici il termine prescrizionale per farne valere la nullità decorre dalla data di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati” (Corte di Cassazione Sezioni Unite Civile sentenza del 2 dicembre 2010, n. 24418).
La Suprema Corte non solo ha dichiarato la nullità dell’anzidetta clausola di capitalizzazione trimestrale, ma altresì la nullità della capitalizzazione annuale.
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